La morte di una persona cara è un’esperienza che accomuna ognuno di noi, prima o poi, tutti viviamo il dolore di una perdita.
Il suicidio è un’esperienza particolare di perdita.
Ogni anno in Italia assistiamo a circa 4mila suicidi. Ciò vuol dire che ogni dieci anni scompare una città di 40mila abitanti (dati Osservatorio Suicidi in Italia). L’incidenza è particolarmente grave tra i giovani: il suicidio è la quinta causa di morte tra gli adolescenti dai 10 ai 19 anni.
Esso impatta, in particolare, sulla parte più vulnerabile della popolazione mondiale: è molto prevalente nei gruppi sociali emarginati e discriminati e nei Paesi a basso e medio reddito in cui risorse e servizi sono assenti o scarsi e limitati.
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Pochi studi sul fenomeno
Sebbene il suicidio sia un fenomeno rilevante e tristemente presente in ogni cultura ed epoca storica, sono pochi gli studi fatti fino ad oggi.
Fino al XIX secolo non è mai esistito un vero e proprio studio scientifico sul suicidio. Il primo risale al 1897, ad opera di Emile Durkheim che nel suo libro “Il suicidio. Uno studio di sociologia” analizza il fenomeno sotto l’aspetto sociologico. Nel corso del Novecento si comincia a guardare anche l’aspetto psicologico.
Recentemente, da Durkheim, diversi autori hanno elaborato teorie per spiegare e concettualizzare tale fenomeno: Freud, Asch, Bowlby, Clark, Horowitz, Neimeyer, ecc.
La strada da compiere è ancora molta.
Ma quali e quanti suicidi?
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Definizioni e tipologie di suicidio
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) fa distinzione tra:
1. “Suicidio: azione con esito fatale che il soggetto, con la coscienza e l’aspettativa di un esito fatale, ha pianificato e portato a termine per ottenere lo scopo desiderato di morire;
2. Tentato suicidio: azione non abituale con esito non fatale, deliberatamente iniziato e concluso dal soggetto;
3. Parasuicidio: atto non abituale, ad esito non fatale, deliberatamente iniziato e concluso nell’aspettativa di un qualche esito, in grado di realizzare il desiderio autolesivo. Vengono considerati in questa categoria: il rifiuto delle terapie e di altre misure preventive;
4. Suicidio mancato: la situazione in cui la volontà della morte, seppur molto alta, non conduce alla morte.
Si sono identificate diverse tipologie di suicidio, ne elenco solo alcune: s. dimostrativo, di protesta, di coppia, istituzionale, da noia o da tedium vitae, di massa, passionale, religioso, ecc.
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Il lutto non autorizzato
Il suicidio, insieme alle morti perinatali, rientra tra i “lutti non autorizzati” (disenfranchised grief), termine concettualizzato dallo psicologo Kenneth Doka negli anni ottanta del ventesimo secolo.
Tale termine indica tutte le morti non riconosciute e supportate socialmente.
E’ il tipo di lutto vissuto da una persona che soffre per una perdita significativa che non può o non viene espressa pubblicamente nè vissuta apertamente perché, da sempre, il suicidio è considerato uno dei principali argomenti fonte di vergogna e disapprovazione. Viene stigmatizzato dalla società tanto che le persone cercano di nascondere le circostanze della morte del loro caro per paura di venir giudicate o considerate responsabili, oltre che per preservare la reputazione del defunto.
Per questo stesso stigma, chi sopravvive ad un suicida riceve un minor appoggio sociale. Proprio questa mancanza spesso spiega perché i sopravvissuti sviluppino sintomatologie più severe.
La difficoltà di superare la morte di una persona suicida non riguarda solo il singolo: si stima infatti che, per ogni suicidio, circa 6 persone vivono gli effetti devastanti di questa morte traumatica. Spesso tutta la famiglia del defunto viene colpita e può perdere coesione tra i suoi membri.
Ma facciamo un passo indietro. Da dove nasce la vergogna che avvolge chi ricorre al suicidio e i suoi familiari?
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Un po’ di storia …
La società ha sempre cercato di mantenere le distanze e rinnegare la memoria di coloro che compivano tale gesto. Vediamo l’Europa come si è comportata nei secoli.
Nell’antica Grecia e nell’antica Roma, il suicidio era considerato un metodo accettabile solo per coloro che subivano un’importante sconfitta militare altrimenti, ad una persona che si toglieva la vita, veniva negata la normale sepoltura. Veniva piuttosto sepolta da sola, alla periferia della città, senza una lapide o un segno che potesse farla riconoscere.
Nel Medioevo ai suicidi veniva tagliata la testa prima di essere sepolti e non meritavano il rito religioso.
La Francia di Luigi XIV puniva chi si toglieva la vita: il corpo della persona morta veniva trascinato lungo le strade, a faccia in giù, e poi veniva appeso in pubblica piazza o gettato nei rifiuti. Le sue proprietà venivano confiscate.
La Chiesa cristiana ha, da sempre, scomunicato chi attenta alla propria vita e, in passato, espropriava dai cimiteri consacrati il corpo di un peccatore.
In Gran Bretagna non troppo tempo fa, nel tardo XIX secolo, il tentato suicidio era considerato equivalente al tentato omicidio e veniva punito con l’impiccagione. Nel resto dell’Europa lo stesso gesto era considerato segno di infermità mentale.
Da questi esempi possiamo capire come siano nati e siano ancora forti il tabù e la vergogna rispetto la morte per suicidio e come si desideri nascondere tale evento.
Nascondendolo però si rischia di rendere ancora più difficoltosa l’elaborazione della perdita e di soffrirne maggiormente.
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L’elaborazione del lutto dopo un suicidio
Un lutto si considera “concluso” quando se ne porta a termine la sua elaborazione.
Il “lavoro del lutto” o elaborazione del lutto (grief work) consiste nel lavoro psichico (personale e naturale), successivo all’evento luttuoso, che si compie in chi resta attraverso un confronto con immagini, pensieri, memorie ed emozioni legati alla persona perduta. Tale processo, se positivo, porta ad un adattamento alla perdita della persona cara.
L’elaborazione è ovviamente influenzata da diversi fattori tra i quali anche la qualità e la tipologia di morte.
Il suicidio, ovviamente, rende più difficoltosa l’elaborazione di tale perdita e può comportare, in chi resta, la trasformazione del lutto in complicato o traumatico.
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Il lutto complicato o traumatico
Gli studi fatti fino ad oggi rispetto al lutto tendono a separare il cosiddetto lutto “normale” da quello “patologico”.
Il lutto fisiologico/“normale” è quello in cui l’elaborazione ha un suo normale decorso e le reazioni psicosomatiche di chi la vive hanno un’intensità media e durano per un tempo circoscritto.
Il lutto “patologico” invece è quello che non porta ad un’elaborazione serena della perdita, fa emergere sintomi persistenti e pervasivi in chi resta (tanto che i soggetti possono sviluppare patologie quali la depressione e il disturbo post-traumatico da stress PTSD) e dura per un tempo molto più lungo rispetto al lutto definito “normale”.
Rientrano nel lutto “patologico” il lutto “complicato” e quello “traumatico”.
Il lutto “traumatico” è collegato ad una morte, appunto, traumatica che avviene in circostanze inaspettate e improvvise. Chi sopravvive tende a reagire all’evento con intensi e pervasivi sentimenti di rifiuto e negazione.
Solitamente, chi vive un lutto di questo tipo, ha pensieri, ricordi ed immagini intrusive e molto ricorrenti del defunto, tende a cercarlo disperatamente, prova un forte senso di solitudine, tristezza intensa, rabbia, rancore, invidia delle altre persone “felici”, sensazioni di sbandamento e shock. Può provare anche un forte senso di inutilità, apatia per ogni cosa e mancanza di progettualità futura, evitamento di attività/luoghi che ricordano il defunto oppure può ricercarli ossessivamente.
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La rete sociale
La presenza di relazioni, amicali ed affettive (rete sociale, appunto), gioca un ruolo chiave nella prevenzione del suicidio e concorre ad un’elaborazione positiva del lutto.
Chi soffre, ma anche chi rimane dopo il suicidio di una persona cara, va supportato sostenuto ed accolto nella società. Al contrario, l’isolamento amplifica la solitudine, il dolore, la mancanza.
Come abbiamo detto, il suicidio è ancora prevalentemente visto come un evento di cui vergognarsi e da nascondere alla società. Ciò però non fa altro che amplificare il tabù e lo stigma che lo relegano a “peccato capitale”, “gesto innaturale e vergognoso” e ostacola la vita di coloro che sopravvivono.
Chi tenta il suicidio (raggiungendo l’obiettivo o meno) e chi sopravvive vanno visti per quello che sono: persone che possono e hanno il diritto di essere aiutate e non colpevolizzate ed isolate ai margini della società.
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Suicidio e Covid19
La pandemia da Covid19, con le sue restrizioni fisiche, psicologiche, lavorative, sociali ed economiche, ha influenzato negativamente la Salute Mentale come hanno dimostrato molti studi e ricerche. Si è visto che ha avuto un impatto anche sul tasso di suicidi, pur non rappresentandone la causa (Farooq et al, 2021).
Ad incidere sull’aumento dei casi è piuttosto l’aumento della solitudine. Come abbiamo detto nel paragrafo precedente, la presenza o meno di una rete sociale è uno dei fattori essenziali a determinare o meno le ideazioni e i comportamenti suicidari o autolesionistici.
Rispetto a situazioni simili alla pandemia, la salute pubblica dovrebbe elaborare interventi di prevenzione al suicidio tenendo in considerazione anche l’effetto che, la solitudine e l’isolamento, possono avere sulla Salute Mentale.
Si è visto, ad esempio, che nei confronti di soggetti fragili: brevi interventi di contatto come telefonate, email o lettere anche durante il ricovero in ospedale possono essere utili per fornire supporto sociale a distanza all’assistenza e ridurre il rischio di suicidio (Milner et al., 2016).
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Un problema di tutti
In tutto il mondo la prevenzione del suicidio non è ancora stata sufficientemente presa in considerazione, perché purtroppo tale fenomeno non viene percepito come un problema di salute pubblica e i tabù che lo riguardano creano ancora più fatica.
Sono necessari interventi di informazione e formazione su tutto il territorio, non solo in ambito sanitario, e con un approccio multidisciplinare. Vanno coinvolti tutti gli ambiti sociali (educazione, politica, lavoro, religione, giustizia, mezzi di comunicazione) e ogni classe sociale.
Sin da bambini si deve sensibilizzare su tematiche che riguardano la malattia e la morte; va permesso il dialogo sull’argomento cercando di abbattere il falso mito secondo cui “più se ne parla e più si incentiva il suicidio”. Vanno costruite reti di sostegno intorno a chi tenta il suicidio e a chi perde qualcuno in questo modo. Va’ insegnanto ad ascoltare e ad accogliere il dolore; si devono conoscere e si deve prestare attenzione ai possibili fattori di rischio (cioè quegli aspetti che possono aumentare la probabilità dei suicidio) e vanno creati quegli elementi che invece possono diminuirne l’insorgenza (fattori di protezione).
Il problema non è solo del singolo o dei suoi cari ma è un problema di tutti, di salute pubblica.
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Psicologa Silvia Mimmotti
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