«Io, sopravvissuta»
Fabrizia Pavetto si racconta in questa ricca intervista.
Da sempre amante della scrittura, che considera la forma più alta di espressione e comunicazione, approda nel mondo dell’editoria e diventa giornalista nel 2007.
Appassionata anche di tutto ciò che riguarda la crescita personale e il coaching, diventa mental coach professionista nel 2021 e si specializza in coaching oncologico.
Ma è la sua vita, in particolare un accadimento del marzo 2021, che la portano a scrivere il suo primo libro dal titolo ”Letterbomb”.
Ti invito a leggere le sue parole.
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La sua testimonianza di sopravvissuta
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) quasi un milione di persone nel mondo muore per suicidio ogni anno. Il suicidio rientra fra le prime 10 cause di morte e si posiziona fra le prime 3 tra gli adolescenti e i giovani adulti. Per quanto concerne l’Italia, come riportato dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’Osservatorio Suicidi, ogni anno si registrano in media circa 4.000 suicidi.
Il 10 settembre è stata la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. Quale significato ha per te questa giornata?
La morte per suicidio vede una complessità di elementi da trattare. Sono felice che si inizi a dare voce al tema del suicidio, da sempre un tabù, e che in occasione della giornata Mondiale per la prevenzione dei suicidi, celebrata lo scorso 10 settembre, finalmente se ne parli e si cerchi di sensibilizzare le persone al tema.
Parlare di suicidio significa riconoscere che il problema esiste, che numericamente è una tipologia di morte che sempre di più colpisce le persone, sempre più giovani. Sono felice che si possa parlare di temi così delicati da sempre ritenuti, specie per la chiesa, peccaminosi. Per me è importante in quanto c’è un gran numero di persone che soffre e parlarne permette di iniziare a pensare davvero a come prevenire la morte per suicidio. Una rete si può creare.
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Come abbiamo visto nel precedente articolo (link https://www.psicologasilviamimmotti.it/suicidio-chi-pensa-ai-familiari/ ), il suicidio impatta profondamente sulla psiche di chi è stato vicino al defunto. In letteratura si sta coniando il termine “sopravvissuti al suicidio” per indicare “coloro che hanno perso, per suicidio, una persona significativa e la cui vita è cambiata a causa di tale perdita” (Andriessen e Krysinska, 2011; Jordan e McIntosh, 2011).
Che cosa significa per te essere una sopravvissuta?
Mi sono sempre definita una sopravvissuta senza nemmeno saperlo. Essere una sopravvissuta significa sopravvivere a un dolore incomprensibile che porta a dei profondi dolori personali legati alla ricerca continua di quei perché alla base di una scelta così radicale.
Sono sopravvissuta alla morte della mia mamma perché nella mia ricerca di risposte ho poi scelto la vita come insegnamento per andare avanti.
Un suicidio travolge tutti alle spalle, come uno tsunami.
Nessuno è preparato all’ondata altissima che sta arrivando. Solo dopo una simile esperienza si possono comprendere i segnali alla base, così come ora, tramite la tv e i filmati inerenti allo tsunami in Indonesia di diversi anni fa, possiamo cogliere il ritiro delle maree come un primo segnale.
Ecco io sono una sopravvissuta, come tutti i sopravvissuti, di quelle distruttive ondate.
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Complice di questo tsunami è anche il forte stigma, che tuttora esiste nella nostra società, rispetto a chi compie un suicidio. Questo rende difficile, a familiari ed amici del defunto, esternare la propria sofferenza perché temono la reazione e l’opinione che gli altri potrebbero avere nei loro confronti.
Ti sei sentita vittima di questo stigma sociale o hai trovato la giusta accoglienza?
Mi sono spesso sentita vittima di questo stigma sociale. Un po’ il giudizio altrui e un po’ perché spesso si tende a dare la colpa dell’accaduto ai famigliari. Io stessa l’ho subito pensato quando in tv o nei giornali leggevo dell’ennesimo suicidio. Solo dopo ho compreso che le dinamiche alla base di un suicidio sono spesso molto diverse e proprio per la loro natura è molto difficile cogliere i segnali interpretandoli correttamente.
La società tende a non parlare del suicidio, paura di emulazione? Paura di non sapere come prevenirlo? Sono tanti gli elementi che ancora oggi sono dei grandi tabù. È necessario che la società impari ad essere sempre più consapevole rispetto al tema in modo da poter accogliere anche chi, come me, ne è vittima.
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Quali emozioni e bisogni hai sentito che avrebbero avuto necessità di maggiore ascolto quando hai perso la tua mamma?
Perdere la mia mamma è stato perdere me stessa. Mi sono irrimediabilmente persa. Non avevo una bussola. Nessuno delle istituzioni o della sanità si è preso cura dei miei bisogni e di quelli della mia famiglia. Avrei avuto bisogno di essere accompagnata nel percorso di supporto, di essere ascoltata e vista. Nel mio caso i servizi sanitari non si sono attivati se non nell’immediatezza dell’evento tramite la psicologa dell’emergenza, ma il percorso di ripresa me lo sono costruito da sola con sofferenze incredibili che mi hanno portato anche ad un grave crollo psicologico e il ricovero per alcuni giorni.
Ho sentito il bisogno di non sentirmi sola, senza strumenti. Ho sentito il bisogno di chiedere aiuto, senza timore. Ho sentito il bisogno di qualcuno che comprendesse il mio malessere e il mio stato mentale continuamente legato ai motivi dell’evento.
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Come spieghi benissimo tu, la perdita di una persona cara, in particolare in seguito a morte traumatica come nel caso del suicidio, comporta sempre una frattura nella biografia di chi resta, crea un “prima” e un “dopo” netti e ben differenti.
Gli autori Karl Andriessen e Karolina Krysinska, nel loro lavoro del 2011, riportano la metafora del sasso gettato in un lago per spiegare l’impatto di vasta portata che produce la morte per suicidio in chi resta: provoca sulla superficie dell’acqua numerose increspature che si espandono.
Che cosa ti ha aiutato ad affrontare “le onde turbolente ed improvvise” dopo quel 21 marzo?
È proprio così: i danni collaterali di un suicidio sono moltissimi. Le mie onde sono diventate tempeste perfette sincrone che di fatto hanno distrutto quel poco che dopo il passaggio dello tsunami era rimasto. Una tempesta in grande stile.
Mi ha aiutato avere accanto chi si è preso cura di me, chi mi ha aiutato a rivedere la vita come una grande possibilità. Mi ha aiutato la terapia psicologica e il lavoro intensissimo di riordino e digestione di quello che era successo vedendo la vita in modo diverso. In effetti, come scritto in una celebre frase, “la vita è ciò che accade mentre sei impegnato a fare programmi’.
Ho imparato che tutto può accadere. E a me è accaduta la morte per suicidio della mia mamma.
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Anche la scrittura ti ha aiutato moltissimo. Da quelli che prima erano sfoghi e scritture private, è nato il tuo libro dal titolo emblematico LETTERBOMB. Ti va di parlarne?
Ho sempre amato scrivere. La scrittura è da sempre la mia più alta forma di espressione.
Una sera ho voluto cristallizzare il mio dolore che era comparso così all’improvviso.
Pungente, toccante e soffocante. Ho provato a parole mie di cercare di capire a cosa fosse dovuto e da cosa arrivasse. Ho preso in mano il mio smartphone e ho iniziato a scrivere. Era il mio primo scritto che toccava così da vicino il dolore. Ho cercato di analizzarlo, di descrivere le sensazioni, di coglierne le sfumature e rivivere alcuni attimi. Ho scritto di me e poi ho compreso di avere la necessità di scrivere di Lei, di mia mamma. Il risultato è più di 80 note scritte sul cellulare che piano piano ho riletto cercando di dare un significato, un ordine e nell’ordine ho trovato una motivazione fortissima: esternare il mio dolore agli altri affinché si parli di suicidio e affinché le altre persone non si sentano sole e possano comprendere che i sopravvissuti poi tornano a vivere, ognuno con il suo tempo e il suo modo.
LETTERBOM, lettera bomba, è una lettera che ho scritto a mia mamma e che ripercorre la mia storia vera di sopravvissuta al suo suicidio. È una lettera intima e profonda che vuole davvero scavare nel dolore per poi trovare la chiave per la vita e la serenità.
Un libro molto bello che ho avuto la possibilità di leggere in anteprima. Una scrittura toccante e forte, a tratti dolorosa e a tratti dolce. Scorrendo le pagine si vive la tua crescita e la tua trasformazione.
Qui puoi acquistare il libro: https://bookabook.it/libro/letterbomb/?attribute_pa_levels=volume
Il ricavato della vendita del libro sarà devoluto all’associazione Il Mandorlo Fiorito.
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E’ importante creare una rete di sostegno intorno alle persone che perdono una persona cara in seguito ad un suicidio. Sento di esprimere una doverosa denuncia: sul nostro territorio sono ancora scarsi ed insufficienti gli aiuti disponibili in questo senso. La letteratura riporta come il normale abbattimento dell’umore in seguito al lutto e la mancanza di informazioni rispetto a dove e come trovare supporto siano i principali fattori che ostacolano la ripresa dei sopravvissuti alla morte di un parente/amico. È quindi urgente attivarsi in questo senso con politiche ed iniziative nazionali.
Dal tuo punto di vista e per il tuo vissuto, che cosa pensi manchi nella nostra società per le persone che sopravvivono ad un suicidio di un parente o amico?
Manca una rete, manca la consapevolezza della fragilità e della grande, e sempre più diffusa, problematica che sta colpendo i giovani.
Manca soprattutto l’ascolto vero e attivo verso chi chiede aiuto, verso chi sa cogliere dei segnali di cambiamento preoccupanti in chi si ha accanto.
Manca la formazione dei medici di base sul tema, prima linea per qualsiasi famigliare. Manca un protocollo per la gestione e supervisione da parte della struttura sanitaria.
Manca un prima, quando il familiare chiede aiuto.
Manca un mentre, un supporto al famigliare, una rete di professionisti che collaborano in sinergia
Manca un dopo, per chi resta per chi si trova a dover combattere ogni giorno il senso di colpa, il senso di fallimento, il senso di profondo disagio.
Manca un tavolo di confronto fra i diversi attori per creare un supporto reale e adatto a gestire il prima, il mentre e il dopo.
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La fornitura di servizi tempestivi e adeguati alle persone in lutto richiede una buona comprensione del processo di lutto e dei bisogni di coloro che restano, oltre alla necessità di conoscere e rispettare le differenze individuali.
Come riportato a livello internazionale dagli autori sopra citati, credo anche io che la voce dei sopravvissuti dovrebbe essere inclusa nelle politiche di sanità pubblica relative alla prevenzione del suicidio, nonché coinvolta nella progettazione e realizzazione di interventi di aiuto e sostegno.
So che, nella tua regione, sei impegnata con una task force di professionisti, per promuovere un piccolo ma fondamentale cambiamento. Di che cosa si tratta?
Sono stata contattata da parte de Il Mandorlo Fiorito appena dopo la divulgazione del mio libro sui canali social. Ho da subito trovato all’interno persone fantastiche sopravvissute come me alla morte per suicidio dei loro figli, dei loro fratelli, dei loro genitori, dei loro amici..
Il Mandorlo Fiorito si rivolge al benessere della popolazione. Nasce su iniziativa di un gruppo di “Sopravvissuti” al suicidio di un proprio familiare o amico con l’intento di creare uno spazio per affrontare il tema della prevenzione del suicidio mettendo a disposizione la propria sensibilità e il proprio vissuto personale. Lo scopo è quello di diventare un punto di riferimento sul territorio, per sostenere, supportare e informare chi si trova ad affrontare questa problematica, cercando di superare le difficoltà e il pregiudizio. Si è infatti compreso che parlare di prevenzione e condividere le testimonianze, ha un ‘influenza positiva sul comportamento suicidario, perchè dare speranza è fondamentale per affrontare la sofferenza.
In Valle d’Aosta, che ha il tasso più alto di casi in Italia, vi è finalmente consapevolezza che è necessario intervenire su più fronti per organizzare un sistema efficace di prevenzione. Per iniziativa dell’Assessorato alla Sanità con il PD 522 del 9 maggio 2022 è stato avviato un progetto unico ed importante per un’azione congiunta tra tutte le istituzioni coinvolte nella prevenzione del suicidio.
Il suicidio è un problema che riguarda tutti, ad ogni età della vita e per ragioni complesse. E’ necessario agire per cambiare la percezione del comportamento suicidario, non più o non solo come problema psichiatrico, ma come un problema di sofferenza mentale e psicologica che può essere superato.
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Che messaggio vorresti lasciare a chi ti sta leggendo? Potrebbe essere qualcuno che ha vissuto una perdita simile o che si approccia per la prima volta all’argomento.
Anche nel buio più profondo, anche negli abissi più paurosi ci sono sempre delle piccole stelline che ci sono accanto. Molto spesso non sappiamo vederle eppure ci sono, proprio accanto a noi.
Vorrei essere una stellina per poter illuminare il buio più profondo. Vorrei essere una stellina alta alta per far alzare la testa e aiutare la risalita dagli abissi. Vorrei che le persone sappiano che il suicidio è una soluzione definitiva ad un problema temporaneo, una soluzione è sempre possibile.
Vorrei dire a chi soffre che esistono persone che sanno ascoltare, che sanno comprendere, che sanno cosa vuole dire la sofferenza.
Noi non lo sappiamo ma ognuno di noi ha attraversato o sta attraversando il dolore. Il dolore per la morte di qualcuno, il dolore per la propria situazione personale, il dolore della ferita della mente. Chiedere aiuto è possibile e ci sono tante forme di aiuto che stiamo cercando di attivare.
Chiedere è il primo passo per riprendersi la propria vita e cogliere il bello che ogni giorno sa regalare.
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Cara Fabrizia, ti ringrazio di cuore per avermi regalato questa tua testimonianza.
Per chi approderà qui, sono sicura sarà un’occasione in più per riflettere e crescere.
Il nostro intento è quello di sensibilizzare sul tema del suicidio e dare voce a quelle persone che rimangono e sopravvivono a chi si toglie la vita. Una voce che troppo spesso viene tralasciata e che si spegne nel silenzio di una società ancora poco capace di mettersi in ascolto e fornire aiuto.
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Psicologa Silvia Mimmotti