Mi ricordo che quel giorno, arrivata al quarto item dell’intervista che chiedeva “Professione?”,
E. mi rispose: “Ehm..disoccupata, si può dire?”.
E. era titubante nell’ammetterlo, quasi provasse vergogna. Abbassò gli occhi ma si affrettò a spiegare: “Ho perso il lavoro. Sa’, non è facile occuparsi di un genitore malato 24 ore su 24 e mantenere anche un mestiere. All’inizio prendevo permessi, uscivo prima, entravo più tardi. Poi le corse a casa per urgenze sono diventate sempre più frequenti. Il dolore non perdona! Ma la società non segue i nostri ritmi così mi hanno licenziato. Mia madre ormai ha sempre più bisogno di semplice compagnia oltre che di assistenza. Da quando ha il cancro non riesce più a stare sola un momento e se io mi allontano per un tempo che lei giudica eccessivo, si dispera..si arrabbia..si offende”.
Durante parte del tirocinio professionalizzante ero impegnata presso il Day Hospital oncoematologico dell’ospedale Bufalini di Cesena dove svolgevo un progetto di ricerca che coinvolgeva pazienti onologici e loro familiari. Da questi ultimi raccoglievo dati sul peso dell’assistenza ai loro parenti malati e sul loro livello di carico emotivo (in ‘psicologhese’ si dice “burden”) tramite dei questionari validati e un’intervista semistrutturata costruita ad hoc.
Chi è il CAREGIVER?
La parola “caregiver” viene dalla lingua inglese, significa “colui che si prende cura di”. Il caregiver è presente in ogni situazione di malattia di un parente, non solo in ambito oncologico.
Quando il paziente è ospedalizzato, viene assistito da una figura professionale (infermiere); nel caso in cui, pur avendo una patologia grave rimanga a casa, a svolgere i compiti di assistenza è un familiare o una persona amica. Il caregiver di una persona con diagnosi di cancro vive problematiche specifiche e, per la complessità stessa della situazione, va adeguatamente supportato per non vivere l’assistenza in solitudine.
Il familiare si trova a doversi far carico dei bisogni del paziente sia sotto l’aspetto delle cure di base che del supporto emotivo. Gravano su di lui una responsabilità fisicamente ed affettivamente molto impegnative dal momento che, tra l’altro, non ha una formazione specialistica per ricoprire questo ruolo ed è molto coinvolto dal punto di vista emotivo.
La letteratura ci riporta tra l’altro come questo forte coinvolgimento possa avere ripercussioni sull’equilibrio psicofisico e sulla qualità di vita del caregiver stesso.
PERCHE’ AIUTARE CHI AIUTA?
E’ pertanto essenziale aiutare “colui che aiuta”, come ho accennato in un intervento precedente, prima di tutto perché egli stesso non è immune allo stravolgimento che una malattia (tumore, alzheimer o altre demenze, autismo, ecc) o una qualsiasi disabilità o altro evento traumatico (separazione, perdita di un figlio, aborto, incidente, ecc) comporta nel sistema familiare di cui fa parte.
In secondo luogo, perché egli stesso è risorsa nel processo di miglioramento del parente malato.
Infine, è importante aiutarlo perché è necessario restituire al caregiver il suo SPAZIO e il suo RUOLO principali: egli non è l’infermiere ma è marito/figlio/sorella/madre/padre/moglie/amico/zia della persona bisognosa.
E’ fondamentale che a lui venga riconosciuto il proprio ruolo con i SUOI BISOGNI emotivi, fisici, relazionali e cognitivi.