L’effetto spettatore o bystander effect è il fenomeno secondo cui gli individui, in una situazione di emergenza, non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà se sono presenti anche altre persone.
La probabilità di intervenire aumenta se il numero degli spettatori diminuisce e quindi il soggetto si sente maggiormente coinvolto e responsabile.
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Questo perché avviene?
L’Effetto Spettatore è collegato ad altre variabili.
Ambiguità evento: non si ha chiarezza rispetto all’evento che si vive (è realmente negativo e lesivo per qualcuno? sarebbe necessario intervenire per risolverlo?)
Diffusione di responsabilità: la presenza di altri spettatori riduce i sentimenti di responsabilità di ciascuno e fa diminuire la velocità di reazione rispetto all’evento. In pratica, quando le persone credono che ci siano altre ad assistere all’evento e che potrebbero intervenire al loro posto sono meno propense o più lente ad aiutare una vittima.
Deindividuazione (perdita di individualità): far parte di un gruppo spesso diminuisce il senso di responsabilità del singolo membro. Si vive come in una situazione di anonimato. Può anche capitare che tale anonimato porti le persone a compiere azioni che, da sole, non avrebbero mai compiuto (es: violenze di gruppo).
Ignoranza pluralistica: quando si determina che gli altri non stanno reagendo ad una determinata situazione, lo spettatore non interpreta la situazione come un’emergenza e dunque non interviene.
Coesione sociale: più un gruppo è coeso e più è probabile che ogni membro agirà in accordo con la norma della responsabilità sociale. Tra l’altro si è visto che si è più propensi ad aiutare chi è più simile a noi.
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L’esperimento
Per verificare l’Effetto Spettatore sono stati svolti diversi esperimenti. Il più famoso è quello del 1968 realizzato in laboratorio dagli psicologi sociali John Darley e Bibb Latané.
I ricercatori reclutano 72 studenti dicendo loro che sarebbero stati coinvolti in una discussione sulla vita universitaria. Ogni partecipante viene condotto in una stanza nella quale c’è un telefono interno tramite il quale può comunicare con i colleghi.
Iniziano a confrontarsi e, durante la discussione, un ragazzo prende la parola ma, all’improvviso, si sente male e chiede di essere aiutato.
Il soggetto, oggetto della sperimentazione, è sempre uno solo mentre gli altri (sia i colleghi che il ragazzo che si sente male) sono solo voci registrate. Ad interessare i ricercatori è il tempo che ciascuno fa passare da quando sente il ragazzo chiedere aiuto e l’effettivo intervento.
I risultati sono sorprendenti. Quando la persona (quasi la totalità dei partecipanti, nell’85% dei casi) crede di essere la sola destinataria della richiesta di aiuto, cerca di fornirlo e in modo tempestivo. Quando crede di non essere la sola, interviene solo nel 31% dei casi.
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Intervenire o non intervenire, questo è il dilemma
Solitamente le persone tendono a non offrire aiuto ad una vittima se:
-valutano di correre un rischio personale troppo alto
-temono di diventare il bersaglio dell’aggressione
-pensano di non avere sufficiente forza o altre caratteristiche necessarie per intervenire
-considerano gli altri più capaci e meglio qualificati a farlo
-osservano le reazioni degli altri testimoni e, non vedendoli intervenire, valutano la situazione non così grave
Si è invece più propensi se:
-si conosce la vittima o si hanno dei rapporti con lei
-si conoscono alcune tecniche di difesa personale e/o si possiede una formazione medica
-si valuta che la persona sia meritevole di aiuto.
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Il caso di Kitty Genovese
L’omicidio di Kitty Genovese avvenuto nel 1964 nel Queens viene spesso ripreso come l’esempio più conosciuto dell’Effetto Spettatore.
Kitty ha 28 anni e sta rientrando dal lavoro alle 3 del mattino quando viene aggredita e pugnalata a morte da uno stupratore e omicida seriale. Secondo quanto riportato dalla stampa, l’attacco è durato almeno mezz’ora. La ragazza ha urlato per tutto il tempo tanto che 38 persone si sono svegliate e si sono affacciate alla finestra: ognuno ha visto l’accaduto e ha potuto vedere gli altri spettatori ma nessuno è intervenuto o ha chiamato la polizia.
Tale evento ha scosso molto l’opinione pubblica e diversi psicologi si sono interrogati sull’accaduto.
Qualche anno più tardi, nel 2007, è uscito un articolo che ha in parte smentito quanto riportato nel 1964. Sembra che non tutti i 38 spettatori fossero testimoni oculari e che qualcuno chiamò la polizia che però, quando arrivò, non riuscì a salvare la donna. Il suo assassino, Winston Moseley, fu arrestato solo nel corso di un altro omicidio e fu condannato a morte nel 2016.
Una curiosità. Il caso di Kitty Genovese è considerato una delle principali ragioni per cui, negli Stati Uniti nel 1968, è stato creato il 911, il numero unico per le emergenze.
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Attenzione
I social media rendono spettatori tutti noi e aggiungono, ai meccanismi sopra descritti tipici dell’Effetto Spettatore, l’indifferenza o, al contrario, l’accettazione di certi messaggi o gesti aggressivi che vengono condivisi. Basta vedere, ad esempio, le challenge che vengono inoltrate quotidianamente (tra le più pericolose passate nei social: la blackout challenge o la condom challenge).
Va poi ricordato il lato negativo e il potere dei like. Si è diffusa l’idea che basti un like per appoggiare e far conoscere una buona causa anziché aiutare con un intervento concreto. I like purtroppo non salvano la vita ma, spesso, c’è bisogno di un gesto reale per sostenere qualcuno o certe iniziative.
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E’ importante conoscere l’Effetto Spettatore
Conoscere per ostacolare.
Vi parlo dell’Effetto Spettatore perché è importante capire come funziona. E’ bene sapere che, in certe situazioni (nel mondo reale come in quello virtuale), possono entrare in gioco delle pressioni sociali tali da portarci ad esitare o a non intervenire in una situazione di emergenza.
Solo conoscendo tali pressioni possiamo cercare di evitarle, orientare diversamente il nostro comportamento e aiutare chi si trova in uno stato di bisogno.
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Come si può arginare l’Effetto Spettatore di cui parlavamo ieri?
Rimanendo connessi gli uni agli altri.
Mostriamoci attenti ai potenziali problemi. Osserviamo quanto ci succede intorno e, se qualcosa non ci sembra giusto, cerchiamo di fare qualcosa.
Se siamo testimoni di un atto violento, cerchiamo di ragionare con la nostra testa e di non farci influenzare dal comportamento degli altri testimoni.
Valutiamo se può essere utile intervenire e, soprattutto, se è pericoloso farlo in prima persona. Non è giusto mettersi in pericolo ma vanno chiamati tempestivamente i servizi di emergenza e va presa nota dei dettagli dell’evento di cui siamo testimoni.
Ricerchiamo quelle soluzioni che potrebbero ridurre la violenza e non che la alimentino.
Quando possibile, agiamo ricercando l’appoggio di chi abbiamo intorno. Solitamente, quando una persona fa il primo passo, è molto probabile che anche gli altri intervengano.
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Psicologa Silvia Mimmotti
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Bibliografia:
Darley J.M., Latané B. (1968). Bystander intervention in emergencies: diffusion of responsibility. Journal of Personality and Social Psychology, 8(4), 377-383.
D’Urso V., Giusberti F. (2000). Esperimenti di Psicologia. Edizione Zanichelli.
Latané, B., Darley, J. M. (1969). Bystander apathy. American Scientist, 57(2), 244-268.
Latané B., Darley J.M. (1968). Group inhibition of bystander intervention in emergencies. Journal of Personality and Social Psychology, 10, pp. 215-221.
Milgram S., Hollander P. (1964) Murder they heard. Nation, 198, 602-604.