Agli ammalati e ai morenti va dato tutto quanto
ci è possibile, poiché loro sono noi e noi siamo loro
e ciò che gli doniamo è donato a noi stessi (1)
La morte è un evento sconvolgente che riguarda chi sta morendo in primis ma anche i familiari e gli operatori sanitari che lo accompagnano durante le ultime fasi di vita e durante il morire *.
Dei familiari ho parlato diverse volte [vedi l’articolo nel mio blog: AIUTIAMO CHI AIUTA – https://www.psicologasilviamimmotti.it/aiutiamo-chi-aiuta/ ].
Oggi vorrei dedicare le mie riflessioni a tutte quelle figure, ossia i professionisti della salute, che gravitano intorno a chi se ne sta andando. Per la loro formazione possiamo pretendere che siano professionalmente competenti nell’affrontare il fine vita del paziente ma non possiamo pretendere che lo siano altrettanto sul piano emotivo. Nessuno glielo insegna, nessuno li forma appositamente.
Ciascuno si avvale inoltre delle caratteristiche personali, delle esperienze vissute, delle credenze morali e religiose, delle capacità relazionali e introspettive.
Si dà per scontato che “per coloro che indossano un camice sia normale” vivere l’esperienza della morte e che siano “sufficientemente preparati ad affrontarla”.
Ma quando si è veramente pronti ed abituati alla morte?
Ogni lutto è differente, ogni persona che se ne va porta con sé una storia..un carico di emozioni..fa nascere pensieri e timori in coloro che lascia. Ogni persona che muore crea una ferita più o meno profonda nell’animo di chi resta. Son certa che la morte di un paziente riesce a scalfire anche ‘il medico che crediamo emotivamente più distaccato’, che lo renda in qualche modo vulnerabile o più esposto a riflessioni sul momento finale della vita. Forse proprio quel medico dopo aver visto morire un suo paziente si chiederà, come facciamo tu e io: come sarà quando toccherà a me, come affronterò l’accompagnamento l’ultimo momento di mia madre e di mio padre?
È normale che tutto ciò che un individuo pensa riguardo alla morte influenzi la visione e l’interpretazione della stessa. Pensiamo, ad esempio, ad un infermiere: l’esperienza vissuta con i pazienti che assiste inevitabilmente influenzerà e modificherà il suo atteggiamento futuro.
DIETRO IL CAMICE, L’UOMO
La professione di curante, forse più di altre, modifica il personale modo di essere, costringendo l’operatore sanitario a riflettere, ad osservarsi e a lavorare su se stesso.
Egli si trova, ogni giorno, a dover svolgere un doppio ruolo: quello di “tecnico specialista”, con una certa conoscenza ed esperienza nel settore, e quello di “persona” con tutte le paure e le fragilità che la condizione umana comporta.
Ricordiamoci, infatti, che ognuno di noi non è solo il ruolo che ricopre: tutti abbiamo una nostra identità, una nostra storia, un personale modo di percepire noi stessi e il mondo che ci circonda. Siamo esseri umani.
Inoltre, quello che accade quando un operatore interagisce con un malato non si può ridurre al semplice rapporto tra i due ruoli. Prima di ogni altra cosa, alla base di ogni scambio, in modo più o meno consapevole, si realizza l’incontro tra due soggettività.
Assistere alla morte di qualcuno rende le persone consapevoli della propria inevitabile mortalità. Questo può essere vissuto con disagio, ansia, negazione e non accettazione (2).
Il professionista che assiste il malato terminale si trova a fare i conti con diverse paure che potrebbero rendergli più difficoltoso il lavoro. Ha timore: di fallire dal punto di vista terapeutico; di causare ulteriore dolore nell’altro; di mancare delle adeguate capacità comunicative nel riferire la diagnosi; di non possedere sempre una risposta adeguata a tutto quello che gli viene chiesto; di riconoscere ed esprimere i propri sentimenti perché pensa che non sia professionale esternarli.
Egli potrebbe lasciarsi travolgere dall’evento traumatico che sta vivendo. Può capitare perciò che si schermi dietro un comportamento distaccato.
« Oggigiorno il rapporto tra medico e paziente molto spesso si divarica proprio nel momento del morire: questo avviene perché la morte oggi viene ritenuta dalla medicina quasi come una sconfitta. In realtà la morte non è affatto una sconfitta: è semplicemente un evento della vita. Poiché si impegna a favore della vita, la medicina non può patire la morte come una sconfitta. Essa fa parte del destino delle umane cose. Se, invece, all’interno di una visione enfatica e tecnicistica, il medico pensa alla morte come una sconfitta, ne prende inevitabilmente le distanze, relegandola ai margini della sua professione. Il malato morente rischia così di essere “spersonalizzato”, cioè considerato un malato fino all’ultimo e non un uomo che muore, finendo per essere totalmente separato dal contesto sanitario » (3).
Non riuscire ad elaborare tutte le emozioni che durante la giornata si accumulano porta il professionista a sovraccaricarsi a livello sentimentale e cognitivo e ciò può intralciare il suo operato. Tutto questo si aggrava se lo si unisce all’esigenza di gestire le continue richieste da parte di colleghi, pazienti e loro parenti. In tali condizioni si rischia di compromettere la capacità di prendere decisioni efficaci. Può capitare infatti che, in situazioni di forte stress come nel caso di una morte non ben gestita, si commettano errori e, a lungo andare, si rischi di arrivare addirittura al burnout.
Negare lo spazio e il tempo al lutto, anche per il personale sanitario, significa morire ulteriormente e negare una parte della propria vita personale, emotiva e professionale. Inoltre ricordiamo che il lutto non elaborato è un “lutto per sempre”.
COSA FARE ALLORA?
Gli operatori devono imparare a ‘sostare’ nell’inter-zona emotiva creata dal lutto. Esso ha un suo spazio e tempo, ha una sua dimensione. Non è una parentesi ma un vissuto, è una parte della vita.
E’ pertanto importante che noi operatori ci concediamo la possibilità di esplorare cosa stiamo provando per poi alfabetizzare ed esprimere le emozioni che proviamo in conseguenza ad una morte. Solo così potremmo arrivare a normalizzare l’evento. Riuscire a nominare e ad ammettere la “paura della morte”, è già un buon metodo per addomesticarla.
Per i professionisti potrebbe essere utile anche allenarsi a distinguere tra vita professionale e vita privata, identificando delle ‘idee salvagente’.
Se facilitiamo l’accesso alla nostra vita emotiva, impariamo anche ad entrare meglio in quella del paziente e a saper creare “la giusta distanza” tra noi e lui per poter svolgere il nostro lavoro con la massima professionalità.
Se ci fosse la possibilità, sarebbe importantissimo potersi appoggiare e confrontare con il gruppo/équipe. Tale possibilità potrebbe essere un valido contenitore spazio/temporale per gestire ed affrontare le difficoltà. Utilizzare così il “terzo” (una persona/gruppo esterno agli eventi traumatici) per decentrarsi e prendere la distanza utile da alcune emozioni, potrebbe aiutare a comprenderle meglio.
LA MIA ESPERIENZA
La mia esperienza da psicologa in un reparto di oncoematologia mi ha portato a riscontrare l’urgente necessità e utilità di inserire la figura del terapeuta nella équipe, in modo che si occupi anche del benessere personale ed emotivo del gruppo di professionisti. Sarebbe anche positivo se potesse affiancare il medico in situazioni particolari, come quella della comunicazione della diagnosi infausta, ed aiutare lui e gli altri operatori nella rielaborazione di certi vissuti tipici del reparto, in modo che possano “svuotarsi” di quelli che hanno un maggiore peso emotivo.
Strumenti utili a questo proposito potrebbero anche essere i reflecting team (=gruppi di discussione) e l’open space tecnology (=spazio a disposizione degli operatori per parlare tutti insieme ed in prima persona, con passione e responsabilità).
Necessario inoltre potrebbe essere ragionare e sfatare alcuni pregiudizi tipici di molti ambienti sanitari: i fattori emotivi non sono importanti; chi ha più studiato ha meno bisogno degli altri; chi ha il camice non ha bisogno di sostegno e formazione; sentirsi invincibili e intoccabili emotivamente; non è necessario ascoltarsi ed esternare ciò che ci “sta accadendo dentro”.
Di ulteriore aiuto sarebbe organizzare incontri e seminari per informare ed educare a porgere attenzione alla “buona comunicazione”, a mettersi in ascolto di se stessi e ad usare l’ascolto empatico ed attivo con il paziente fino al suo ultimo momento di vita.
CONCLUSIONE
* Concludo con le parole di Hunter (Patch) Adams che meglio di qualunque altra definizione possono spiegare la differenza -sottile ma fondamentale- che esiste tra “il morire” e “la morte” vera e propria.
« Ricordo una bambina di 11 anni che aveva un tumore molto esteso alle ossa del viso, un occhio addirittura galleggiava nella massa. La maggior parte delle persone trovava difficile stare con lei a causa del suo aspetto. Il suo dolore non era dovuto al fatto che stava morendo ma alla solitudine dovuta all’essere una persona che non si riusciva a guardare. Noi due giocammo, scherzammo e godemmo della sua vita finché non si spense.
Quello fu il momento in cui presi l’impegno di godere della presenza dei malati in modo profondo e di comportarmi in modo normale con loro.
Morire è il processo che inizia pochi minuti prima della morte, quando il cervello viene privato dell’ossigeno. Tutto il resto è VIVERE! ».
Dott.ssa Silvia Mimmotti
NOTE: (1) Dall’altra parte, 2006 (2) Peters at Al, 2013 (3) Giorgio Cosmacini medico, storico e filosofo della medicina. Insegna Storia del pensiero medico nell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Dialnet-MedicinaEMorteUnaConversazioneConIlProfGiorgioCosm-4920113.pdf
BIBLIOGRAFIA:
- Becker PhD, RNa, G.Wright MSN, RN, CEN, HTCP b, K. Schmit BSN, RNb. (2017). Perceptions of dying well and distressing death by acute care nurses. Applied Nursing Research 33, 149- 154.
- Bartoccioni S., Bonadonna G., Sartori F. Dall’altra parte, Rizzoli (2006)
- Clark D. (2002) Between hope and acceptance: the medicalisation of dying. British Medical Journal 324, 905–907.
- Rocchetti L. Negli occhi di chi cura. L’accompagnamento nelle ultime fasi della vita in RSA. Erikson, 2017.
- Low J. & Payne S. (1996) The good and ‘bad death’ perceptions of health professionals working in palliative care. European Journal of Cancer Care 5, 237–241.
- Pereira, A.,. Welberthon Matos Queiroz, J., Bonfim da Silveira, D., Carmo Andrade Duarte de Farias, M., De Sousa Leite, E., et al..(2015). Brazilian Health Professionals’ Perception about Death: an Integrative Review. International Archives of Medicine Section: Medical Humanities ISSN: 1755-7682. Vol 8 No 149.
- Peters, L., Cant, R., Payne, S., O’Connor, M., McDermott, F., Morphet, J., Shimoinaba, K. (2013). Emergency and palliative care nurses’ levels of anxiety about death and coping with death: A questionnaire survey. Australasian Emergency Nursing Journal, 2013 (16), 152-159.
- Seymour J.E. (1999) Revisiting medicalisation and ‘natural’ death. Social Science and Medicine, 49, 691–704.
- Veronesi U., Una carezza per guarire. La nuova medicina tra scienza e coscienza, Sperling & Kupfer, Milano 2005.